🤙Scrivete un commento🤙al n. 3271965476
Il coraggio di parlarne....
Il figlicidio: genitori che uccidono i figliMaria Cristina Siino,Psicologo/Psicoterapeuta
La famiglia dovrebbe essere il luogo preposto biologicamente all’accudimento dei propri figli e alla soddisfazione dei bisogni evolutivi di ciascuno, l’ambiente originario di vita e di relazioni che conferisce valore e significato alla percezione del mondo, del proprio essere, del proprio sentire, dando luogo a quei “modelli operativi interni” che costituiscono l’impianto della mente e ci accompagnano per tutta la vita, guidando i nostri pensieri e le nostre azioni. I bambini sono totalmente dipendenti dal loro “caregiver” (cioè la persona che li accudisce) e ogni tipo di minaccia al loro senso di sicurezza si trasformerà nell’attivazione del sistema dell’attaccamento con comportamenti di protesta, disperazione e isolamento. Il sistema dell’attaccamento permette lo sviluppo della “sintonizzazione psicobiologica” tra il bambino e il suo caregiver, un processo che permette di accoppiare gli stati emotivi interni tra la mamma e il bambino, definito da Stern come “sintonizzazione affettiva”. Tale processo è essenziale per lo sviluppo del cervello del bambino nei primi anni di vita.
Nonostante ciò, le cose, spesso, non vanno come dovrebbero andare. Nel corso degli anni, la storia dell’infanzia è sempre più caratterizzata da episodi di violenza famigliare, all’interno di una famiglia che, spesso, non rispecchia affatto un nucleo di affetto reciproco tra i membri, un nido d’amore, di fedeltà e di solidarietà , ma piuttosto un covo di violenza. La cosiddetta “crisi” della famiglia che si è generata soprattutto durante gli anni dello sviluppo economico, in cui la società si è modificata man mano in una società di mercato, dove tutti i rapporti, anche quelli più personali ed intimi, sono valutati come rapporti contrattuali, cioè in termini di tornaconto individuale, incrementa, all’interno della famiglia stessa, lo stato di frustrazione, di disperazione, di senso di colpa e, quindi, inevitabilmente, di violenza che, spesso, può trasformarsi in omicidio vero e proprio di uno o più membri famigliari.
Si tratta di una violenza che nasce e degenera all’interno delle mura domestiche, una violenza per lo più nascosta, di cui sia le vittime che i carnefici non parlano volentieri, che solo a volte arriva ad esplicite denunce legali, ma che anche per questo motivo è più grave e va attentamente indagata, analizzata e spiegata. Nell’immaginario umano il rapporto madre-figlio è sempre stato visto come il massimo dell’amore possibile, dove nell’amore materno, riconosciuto come un diritto assoluto, diventa sempre più lontana una possibilità delittuosa ma, allo stesso tempo, quando ciò si verifica, l’interesse comune è tale per cui non ci si ferma neanche di fronte a scenari più macabri, come quelli, appunto di un figlicidio. La madre ha in sé un potere senza confini, di vita e di morte: è lei che decide chi può nascere e sceglie come farlo vivere. La volontà del bambino diventa inutile, perché è già definita, segnata, organizzata, suggestionata da ogni cosa che dice o non dice, che fa o non fa la sua mamma. Tale “onnipotenza originaria” di decisione determina una madre buona o cattiva. Sì, perché se tutte le mamme del mondo fossero buone non ci sarebbero milioni di figli infelici, maltrattati, abbandonati, venduti e prostituiti, feriti a vita e uccisi. Purtroppo esistono mamme cattive, mamme che non amano e che non riescono a coltivare amore, che non vogliono riconoscere il proprio figlio e non lo rispettano soffocandone le potenzialità e coltivando un’estensione di sé. Esistono differenti modalità con cui una mamma può essere, o diventare, cattiva e quanto dolore e quanta distruzione può produrre, spesso in modo irreversibile, nella vita di un figlio fino ad ucciderlo. Il figlicidio esiste da sempre. Gli episodi di figlicidio sono estremamente rari, eppure richiamano sempre enorme attenzione e costringono a porsi molte domande. In questo articolo vengono passati in rassegna i dati e le verità di un gesto tremendo ed estremo, che può rappresentare l’epilogo di una maternità , o una paternità , sofferte e difficili.
Da anni la ricerca scientifica sta profondendo impegno e costanza per cercare di comprendere il fenomeno del figlicidio. L’obiettivo è cercare di anticipare ed evitare che accada. A questo fine, risulta importante la definizione dei profili dei genitori e il contesto in cui questo crimine viene perpetrato.
Con il termine Figlicidio ci si riferisce a tutte quelle situazioni in cui sussiste l’assassinio del proprio figlio, da parte o della madre o del padre. Il Codice Penale italiano non fornisce una figura delittuosa autonoma di figlicidio ma fa rientrare l’evento omicida all’interno dell’articolo 575, ossia l’omicidio classico.
La letteratura giuridica (e clinica) italiana, ha trattato con maggior percentuale il figlicidio effettuato dalla madre (rispetto a quelli perpetrati dal padre) e pertanto, in questo articolo, tratteremo maggiormente la situazione clinica riferita alla madre.
In Italia, il figlicidio viene condannato sia moralmente, che socialmente che giuridicamente. Tuttavia, in altri Paesi, il figlicidio è tollerato ed alle volte, anche incoraggiato. Basti pensare a Paesi quali la Cina o l’India, in cui l’omicidio dei propri figli è addirittura stata favorita da legislazioni all’uopo predisposte, al fine di contenimento e controllo delle nascite.
Attualmente, anche alcune tribù tribali dell’Africa e dell’America Meridionale praticano il figlicidio e l’infanticidio come condizione sociale accettata e tollerata. Ma andiamo per gradi.
Definizione di maltrattamento.
Ogni tipo di molestia fisica e sessuale nei confronti dei bambini e degli adolescenti è uno dei reati più terribili, perché rappresenta un atto di violenza perpetrato contro una persona indifesa sia sul piano fisico che sul piano emotivo e non ancora in possesso di un’adeguata maturità sociale; un atto di violenza, questo, che purtroppo sembra verificarsi con troppa frequenza e che non deve essere assolutamente trascurato. Tra le mura domestiche è proprio la madre che più spesso maltratta i propri figli, forse perché è lei ad essere in contatto costante con i bambini nell’arco della giornata, o perché frustrata dal fatto di sentirsi incapace di gestire quella che lei stessa, a volte, vede come una limitazione della propria libertà . Riprendendo la definizione data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2002 per abuso all’infanzia debbono intendersi “tutte le forme di danno fisico e/o emozionale, abuso sessuale, trascuratezza o negligenza o sfruttamento commerciale o altro che comportano un pregiudizio reale o potenziale per la salute del bambino, per la sua sopravvivenza, per il suo sviluppo o per la sua dignità nell’ambito di una relazione caratterizzata da responsabilità , fiducia o potere”. Tale definizione si riferisce a comportamenti che ledono direttamente il fisico (ustioni, ferite, fratture… ), a comportamenti di trascuratezza (mancanza di cure, carenza di igiene), a comportamenti di abusi sessuali e a tutte quelle forme che rientrano nel maltrattamento psicologico. Inoltre, si aggiungono tutte quelle forme di sfruttamento del minore nel lavoro e a fini sessuali (sfruttamento del lavoro minorile, prostituzione minorile, sfruttamento per la produzione di materiale pedopornografico e turismo sessuale). Nonostante la coscienza collettiva ritenga che tali comportamenti siano riconducibili a individui facilmente classificati come malati mentali, disadattati sociali o “mostri”, una buona parte delle violenze possono essere rintracciate all’interno di famiglie appartenenti ad ogni classe sociale, gruppo etnico o religioso di qualsiasi provenienza geografica. In particolare se il gesto è compiuto dalla stessa madre, colei che per definizione dovrebbe invece prendersi cura dei propri figli, allora si va alla ricerca della “follia”, con la convinzione che una grave malattia mentale possa essere al tempo stesso la causa, il movente e l’attenuante di un simile gesto. Il binomio violenza/psicosi molte volte sembra confortare la coscienza comune, ma può facilmente rappresentare per il “mostro” un facile ricorso all’imputabilità e per il “malato” un ingiusto pregiudizio di colpevolezza. Uno degli scopi di tale elaborato è quello di offrire una panoramica sugli innumerevoli tipi di maltrattamenti e abusi che una madre può mettere in atto nei confronti del proprio figlio, sulle caratteristiche di tali madri e sulle svariate cause e conseguenze di un simile gesto sia come ripercussione sulla vita del figlio, sia come percorso psicologico e giuridico di una “madre cattiva”.
Aspetti Psicologici e Psicopatologici
Cominciamo l’esposizione di questo paragrafo sottolineando di come una buona parte delle madri che commette l’omicidio del proprio figlio, agisce in un contesto in cui non è sempre possibile rilevare una patologia mentale pura: una madre infatti, può arrivare a commettere il figlicidio cagionandolo durante un comportamento violento, che non si rifà a nessuna patologia mentale.
Di seguito quindi, si descriveranno le motivazioni più comuni che conducono una madre ad assassinare il proprio figlio:
– Comportamento violento della madre: l’uso della violenza da parte di queste genitrici è all’ordine del giorno. Sono persone incapaci di contenersi, utilizzano la violenza in modo inadeguato, sadico e con connotazioni di crudeltà verso il figlio. Il contesto di riferimento di queste donne è socialmente basso e precario; sussiste la presenza di condizioni economiche svantaggiate e condizioni familiari problematiche. Alcuni casi hanno evidenziato la presenza di disturbi della personalità , irritabilità di base molto alta, aspetti depressivi o presenza di facili agiti di violenza (carattere impulsivo) che spingono la donna ad abbandonare strategie di adattamento per il proprio ambiente precario, lasciandosi andare a comportamenti violenti verso il proprio figlio. Questo tipo di madri pertanto, non mettono in campo una dinamica omicidiaria ben progettata. Si lasciano andare a comportamenti impulsivi che vengono posti in essere durante un “input” del figlio, come urla, pianti, richieste insistenti che di fatto, conducono la madre ad utilizzare la violenza fisica come metodo di risoluzione del caso. Tali comportamenti, agiti di impeto, si identificano con defenestrazione, soffocamento, utilizzo di metodi contundenti, raramente a mani nude. Non sussiste pertanto premeditazione. Queste madri, a loro volta, sembra provengano da una famiglia in cui la violenza fosse una cosa abituale e pertanto sono state elle stesse vittime di violenza da bambine.
– Comportamento omissivo: quando la madre è negligente, può cagionare la morte del figlio in un contesto in cui non si prende cura del figlio, abbandonandolo a se stesso o non curandolo nel modo adeguato. Questo tipo di madri non sono in grado di assolvere la propria funzione di genitrici sia per libera scelta (il non voler fare la madre) sia per condizione mentale (il non essere portata per essere madre). I figli possono essere visti come minacciosi verso la propria esistenza e pertanto insicurezza, paure e incapacità personale conducono la madre a non entrare in sintonia con i bisogni del piccolo e giungono ad abbandonare a se stesso il piccolo che, di fatto, muore di fame o per malattie non curate.
– Comportamento per vendetta: questo comportamento è tipico della madre che cagiona l’omicidio del figlio per vendicarsi nei confronti di ipotetici torti subiti ad opera del padre. Il figlio viene quindi visto come un oggetto con cui realizzare il proposto atto vendicativo, al fine di realizzare un profondo dolore al genitore maschio, mediante appunto, la perdita del figlio. In questo contesto, in ambito clinico, si parla della Sindrome di Medea. Il quadro clinico materno si rifà a donne con gravi disturbi di personalità dagli aspetti aggressivi, comportamenti impulsivi e affetti sostanzialmente caotici. Le relazioni interpersonali sono aggressive e rabbiose e l’omicidio del figlio rientra in questi canoni.
– Omicidio del figlio non voluto: in genere, il comportamento viene effettuato in un contesto di figlio indesiderato e non voluto. La donna che compie l’atto è in genere, lucida ed esegue l’omicidio con volontà . Lo scopo è chiaramente quello di giungere all’assassinio del figlio; così facendo, la madre elimina l’elemento che le ricorda un momento tempestoso della sua vita, in cui ha avuto un compagno che l’ha fatta soffrire e che ora, vuole solo cancellare, uccidendo il frutto del ricordo (il figlio).
– Omicidio del figlio usato come capro espiatorio: quando una madre considera la propria esistenza un fallimento, giunge a prendersela con il figlio, uccidendolo. Il figlio è colpevole di aver rovinato il corpo della madre durante la gravidanza (il cosiddetto sformato dalla gravidanza) oppure di condizioni socialmente riconducibili alla gravidanza, come la perdita del posto di lavoro, la carriera mancata, sessualità coartata per poter accudire il figlio etc. Il figlio diventa la pluralità delle cause poc’anzi citate e viene visto come un costante riferimento all’insoddisfazione della propria esistenza. Il contesto psicologico è quello depressivo, in cui vi è una visione distorta della realtà che portano ad ingrandire alcuni elementi negativi della vita della madre; a questi, si aggiungono comportamenti paranoici che infine, conducono la donna all’omicidio del figlio.
– Violenza plurigenerazionale: questo tipo di donne proviene da un contesto in cui, da bambine, subivano violenze fisiche e percosse. Se alcune madri riescono ad attuare meccanismi psicologici di difesa, ben supportate dall’ambiente esterno, che le conducono ad essere madri affettuose e protettive, in altre avremo il comportamento opposto. La donna non ha un ruolo femminile definito poichè ha introiettato dentro sè il comportamento violento dell’aggressore e generano una violenza che passa da madre in figlio, come se fosse un tratto genetico replicabile con la sessualità .
– Omicidio per cause depressive: in presenza di gravi forme di depressione, alcune madri possono giungere ad assassinare il figlio. Mancanza di speranza per il futuro, sofferenza psichica penosa e costante, impossibilità di ricevere aiuto e bassa autostima sono il quadro clinico di riferimento. Il suicidio è alimentato costantemente e la visione del mondo è quella imposta dalla depressione: penosa, ostile e crudele. Il progetto suicidiario pertanto, coinvolge anche il figlio, in modo tale da risparmiare anche al bambino le pene di questo mondo.
– Omicidio altruistico: questo tipo di omicidio può essere legato ad un disturbo paranoide della madre. La psicopatologia porta la madre a pensare che, da questo mondo privo di spunti, crudele e senza speranza, l’unico modo per salvare il figlio è quello di assassinarlo. Il mondo viene visto attraverso gli occhi della psicopatologia, fortemente condizionata da deliri di persecuzione, allucinazioni di tipo imperativo (voci che danno ordini precisi) che giungono all’unica conclusione possibile: il figlio deve essere salvato e per liberarlo dalla sofferenza, va ucciso. La motivazione quindi, è delirante.
– Omicidio compassionevole: in presenza di un figlio con gravissime forme di malattie, la madre giunge al suo omicidio per interromperne la sofferenza. Questo tipo di omicidio va ben considerato sotto forma di due aspetti: l’omicidio compassionevole vero e proprio, in cui la madre uccide un figlio con una malattia cronica che procura dolore e sofferenze al figlio e l’omicidio pseudo-compassionevole, in cui la madre uccide il figlio diversamente abile per sollevare se stessa dall’obbligo di curarlo e sacrificarsi.
– Omicidio mediante cure dannose: in un contesto in cui le madri cagionano lesioni importanti al figlio, al fine di ottenere attenzioni da parte, ad esempio, del medico, si configura l’omicidio mediante le cure dannose. In clinica, questa condizione è chiamata Sindrome di Munchausen per procura. La donna si presenta come premurosa e attenta ai bisogni del figlio, assillando il medico per richiederne prestazioni sanitarie o esami particolari di tipo invasivo e non necessario. All’oscuro di tutti, somministrano sostanze altamente pericolose o farmaci inutili in un contesto sanitario ma con il chiaro scopo di procurare malattie gravissimi che spesso, conducono il figlio alla morte.
Conclusioni
L’omicidio del figlio, come abbiamo visto, può essere spesso effettuato in un contesto non strettamente mentale. Di fatti, sussistono casi in cui la psicopatologia non è fondamento integrante per l’omicidio del figlio. Occorre pertanto procedere sempre ad una serie di test psicodiagnostici per poter giungere allo stato mentale della madre: le patologie più comuni infatti, sono depressione o disturbi della personalità .
Di contro però, abbiamo anche madri che utilizzano sostanze psicotrope, droganti, alcoliche o farmacologiche mentre in altri contesti, vi è lucidità e volontà di commettere il delitto. La responsabilità penale pertanto, appare o fortemente scemata oppure completamente piena. Vi sono casi in cui può essere addirittura completamente elusa. Ciò che conta però, è che l’omicidio del figlio, in Italia, scatena reazioni emotive molto intense e perturbanti. La società vede il bambino come impotente dinanzi la cattiveria degli adulti e meritevole di maggior tutela: quando questa tutela viene negata addirittura dalla madre, che uccide il figlio in modo così brutale, lo sdegno sociale è sentito esponenzialmente, rispetto ad un omicidio di un adulto.
ATTENZIONE pero'. . .
a noi che ci diciamo cristiani è richiesto il silenzio e NO il giudizio. Chi sono io per condannare? Non l'ha fatto nemmeno Gesù con i suoi crocifissori.....
Facciamo memoria delle ultime parole di Gesù sulla croce: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno" (Luca 23:34) - Quando pronunciò questa frase, il Signore Gesù stava provando le prime sofferenze derivanti dalla crocifissione; gli esecutori Gli avevano appena inchiodato le mani e i piedi alla croce. Egli doveva essere già estremamente provato e indebolito dalla precedente notte di agonia nel Getsemani senza considerare le frustate che Gli erano state inferte durante il giorno e le penose derisioni di Caifa, Pilato, Erode e delle guardie pretoriane. Ciò nonostante HA PREGATO PER I SUOI CARNEFICI chiedendo al Padre di avere per loro misericordia.....IMPARIAMO da Lui.
L’Amore fa parte di noi, costituisce la nostra vera essenza, ma noi l’abbiamo sepolta con strati di egoismo, di odio, di giudizio, di condanna, di paura, e chissà quanti altri sentimenti negativi. Tuttavia, non è mai troppo tardi per riscoprire quell’amore, basta gettare via dalla nostra vita e dal nostro cuore tutto quello che amore non è. Il perdono ci aiuta a fare proprio questo. Agli occhi di chi ha perdonato, un amico e un nemico sono la stessa cosa: fratelli. Egli sa che i suoi fratelli possono sbagliare, ma attribuisce i loro errori all’ignoranza, e ha imparato che può amarli indipendentemente dalle loro cattive azioni.
Maria Cristina Siino,psicologo psicoterapeuta
16 Giugno 2022
Nessun commento:
Posta un commento