Siamo cura noi stessi
La favola-mito della cura essenziale è di origine latina con base
greca. La riporta Igino, scrittore del I secolo d.C.; se ne servirà Heidegger,
quando analizzerà il tema della “Cura” (Sorge) in Essere e Tempo.
“La Cura, mentre
stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa ne raccolse
un po' e cominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire cosa abbia
fatto, interviene Giove. La Cura lo prega di infondere lo spirito a ciò che
essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la Cura pretese di
imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che
fosse imposto il proprio.
Mentre la Cura e
Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che
era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una
parte del proprio corpo.
I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale
comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: “Tu, Giove, che hai dato
lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai
dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede
forma a questo essere, finché esso vive lo possieda la Cura. Per quanto
concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus”.
Dalla verità
archetipica del mito, scopriamo ancora una volta il senso del nostro esistere:
siamo terra abitata dal cielo, chiamati a costruire la nostra esistenza nel
tempo, ma protesi a dar forma all'utopia (che è Saturno, dio del tempo e della
mitica età dell'oro). Solo nella continua ricerca dell'impossibile l'umano può
realizzare il possibile.
Ma
ciò che si svela sin dal principio è che la Cura precede!
Non
siamo chiamati ad aver cura, no, siamo cura noi stessi!
In ogni fibra. Nel
profondo. Prima che fossimo fibra, prima che ci fosse un profondo, siamo stati
pensati come cura.
Nella doppia
accezione di essere oggetto di cura, da parte di altri (come pensare di
esistere in assenza di cura? Come venire al mondo senza qualcuno che ci
attenda, ci faccia spazio, ci veda, si accorga di noi?) e di assumere la cura
di un oggetto esterno a noi.
Cura è rinunciare,
una volta per sempre, alla volontà di potere che cosifica il mondo, riducendolo
a merce di scambio. E inaugurare relazioni di rispetto e di riscoperta del
valore sacro di ogni realtà donata. Cura è la saggezza che sa decentrarsi, che
rinuncia a comprendere il mondo e l'altro “a partire da sé” (e talvolta
rinuncia a comprendere, e basta...), ed impara a contaminarsi, a spostarsi di
lato, a fare spazio.
Cura è lo sguardo
che si posa sulle cose e le chiama ad essere, che sa offrire una nuova
occasione. Come lo sguardo del Nazareno,
che scava nel profondo per trarne fuori ogni buono; cura è l'attesa paziente
perché il seme piantato dia frutto, è il disporsi, sapiente, ad attendere il
tempo giusto, senza forzare gli eventi. E' la sintonia che ci lega ad ogni
vivente e ci insegna a captare la presenza dello Spirito al di là dei nostri
limiti umani.
Cura è aprire
spazi di ascolto, grembi di buio, capaci di custodire le sconfitte, le rinunce,
i fallimenti e tutto ciò che non ha ancora la forza di venire al mondo, e
disporsi all'attesa sino a che giunga il tempo della schiusa.
Cura è scommessa
sul futuro, è capacità di visione che squarcia il velo del presente per
concedersi la speranza.
Per questo ogni
gesto di cura, anche il meno visibile, è un gesto politico, perché invera
l'ipotesi di un vivere buono da costruire insieme, perché diviene luogo di
resistenza alla barbarie, pone la base per una nuova con-vivenza e, senza
alcuna pretesa di salvare il mondo, aiuta a salvare il nostro sguardo su di
esso.
Cura è, infine, la
tenacia con cui qualcuno ha saputo
scorgere un tenero verde spuntare dal tronco disseccato di Iesse. E'
l'abbraccio materno che sa dire nemmeno uno iota, nemmeno un capello del capo
sarà perduto, e lo dice quando tutto ci sembra perduto, quando noi e il mondo
intorno sembriamo andare alla deriva.
E' dote di
profeti, una cura come questa. E talvolta la ritrovo nei gesti antichi di certe
nostre donne di campagna, e nei loro piccoli, rigogliosi giardini, stipati di ogni
cosa, dove tutto torna ad attecchire, ciò che era dato per finito.
Chiara Saletti
(articolo tratto da Combonifem)
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