giovedì 2 ottobre 2014

Liturgia e carità / 1

Un rapporto che trova la sua unità in Cristo

Non è affatto un problema marginale o non essenziale alla vita ecclesiale quello del rapporto tra liturgia e carità. Anzi, su di esso si gioca il volto della chiesa: gli eventuali squilibri di questo rapporto manifestano opzioni ideologiche e deviazioni ecclesiologiche. Entrambe, la liturgia e la carità, sono dimensioni essenziali alla vita cristiana e necessitano di un rapporto equilibrato. Certo, la liturgia si situa nello spazio dei segni e nel movimento della celebrazione, mentre la carità si situa sul piano della res e nel movimento della vita.

Vi è il rischio di assolutizzazione dell’una dimensione a scapito del’altra e della separazione delle due grandezze. Se la liturgia si scinde dal piano della carità vissuta, diviene fine a se stessa, autoreferenziale e si sacralizza, cioè entra nello spazio arcano del sacro dominato dalla paura e dal fascino, non invece, come nel culto cristiano, dalla fiducia e dalla relazione.

Una liturgia che ricada nel sacro accentua quella distanza tra uomo e Dio che proprio Cristo ha abolito in se stesso, essendo lui l’uomo che nella sua piena umanità ha pienamente narrato Dio nel suo vivere; in una liturgia scissa dalla vita e dalla carità le forme assumono una importanza esagerata, a servizio della ieraticità del celebrante e della solennità della celebrazione, i paramenti, gli abiti, le “suppellettili sacre” diventano sempre più fastosi, preziosi, costosi, con il pretesto dell’onore da accordare a Dio, e così si insulta il povero, si dimentica che la realtà è il fratello, il povero, e che lì vi è la vera immagine di Dio e che il cuore del culto cristiano non è la ritualità, ma la relazione con Cristo e dunque con il prossimo, con i fratelli e le sorelle.

Se il Canone Romano parla del praeclarus calix, il prezioso calice, questo non abilita nessuno a fare calici d’oro, o a tempestarli di pietre preziose, perché Cristo resta povero anche quando viene celebrato nella liturgia. Insomma, anche la liturgia può essere luogo di apostasia, di ipocrisia e di menzogna e allora cade sotto gli strali che i profeti lanciavano al culto scisso dall’esercizio del diritto e della giustizia.

Non dimentichiamo l’ossessione liturgica che negli ultimi anni ha dominato il mondo cattolico, non dimentichiamo che lo scisma del movimento lefebriano si gioca in particolare sulla liturgia, e sul tema di una tradizione intesa come ripetizione di forme passate, dimenticando che il criterio di verità della tradizione è nel futuro e non nel passato, è il regno di Dio, l’eschaton. Ai cosiddetti tradizionalisti occorrerebbe poi domandare dove e quando la fanno iniziare la tradizione.

Al tempo stesso, se la vita cristiana non può essere ridotta a vita ritualizzata, la prassi quotidiana di carità non deve dimenticare il suo legame organico con la liturgia perché se se ne scinde, anch’essa si assolutizza, e cade nel protagonismo della carità, si scinde dal fondamento dalla carità cristiana che è l’amore di Dio, di cui cioè Dio è soggetto e autore, perde la sua sacramentalità e diviene organizzazione della carità, filantropia, managerialità del bene, assistenza sociale, burocrazia del servizio.

E dimentica il fondamento dell’etica cristiana che nella liturgia e massimamente nella liturgia eucaristica emerge con forza. Il rischio dell’assolutizzazione del piano sociale scindendolo dal piano celebrativo è quello di arrivare a dichiarare o a sentire come inutile la liturgia perché il culto è completamente assorbito nella vita. E in quel caso ci si dimentica che la carità di cui parliamo non è immediatamente disponibile, ma è mediata dalla fede ed anch’essa ha figura cristologica, è l’amore come Cristo ha amato, è l’agape di Dio narrata dalla vita di Gesù di Nazaret.

Come superare dunque questi rischi? Con un’affermazione precisa e ineludibile: Cristo è il centro della liturgia cristiana e Cristo è la forma della carità. E il Cristo la cui forma e figura e storia ci è testimoniata dai vangeli. Il Cristo attestato dai vangeli. Il Cristo che con il suo Spirito si situa al centro della liturgia è il rivelatore del Dio che è Agape, che è amore, e Cristo è la Charitas fatta persona.

La liturgia si deve ricordare che essa è sempre celebrazione della carità di Dio, pena il suo perdersi nelle nebbie del sacro e nella casistica del ritualismo, il suo finire nel formalismo e nel rubricismo. La testimonianza e la pratica della carità deve, da parte sua, ricordare sempre il fondamento teologico e cristologico della carità stessa, pena il suo inaridirsi e disperdersi nelle secche del protagonismo umano. La chiesa non è un’agenzia filantropica o un ente assistenziale, ma la narrazione della presenza di Dio tra gli uomini.

La liturgia celebra la relazione che Dio ha intrattenuto e continua a intrattenere con l’umanità in Cristo, nello Spirito santo, e la carità è relazione con il prossimo e con Dio. La categoria della relazione è centrale nella liturgia come nella carità. Nell’economia cristiana l’essenza del culto non risiede nella ritualità, ma nella relazione con Cristo e pertanto è l’intera vita dell’uomo il luogo di culto: culto che dev’essere reale, personale, esistenziale, storico.
                                                                                                                               Luciano Manicardi
 (articolo tratto da www.caritasbergamo.it)

Nessun commento:

Posta un commento