mercoledì 24 aprile 2013

La Relazione che cura


Il segreto della cura: Amare
Riflettiamo.....
                                                           
                             
   
           Chi fa esperienza di malattia si trova frequentemente a vivere un vissuto fatto prima di confusione, rabbia amarezza, per poi gradualmente trasformarsi in una specie di silenzio relazionale, (non se ne parla per evitare il dolore) che calcifica non solo le emozioni e i comportamenti ma anche  alcuni rapporti familiari o di amicizia. Parlare di cura significa non trascurare che ciascuno di noi in svariate forme e in diversi momenti della vita prima o poi ne fa esperienza personale; non illudiamoci però che a noi spetti solo la cura!!! A volte anche noi siamo chiamati a vivere pienamente il Getzmani. 
Molti di noi al di là delle concrete competenze realmente possedute si fa spesso buon samaritano verso molti sofferenti di qualunque tipologia.  Chi cura non è solo il medico ma chiunque sappia  mettersi in ascolto di un grido di dolore e poi andare verso quello stesso grido, quasi svuotandosi di sé per fare spazio al dolore dell’altro. Quando si arriva a così tanta dedizione spesso non si sente più neanche il proprio di dolore!! Ciò è possibile perché io scelgo di essere sofferente con i sofferenti per una sola ragione: prendermi cura con amore. Non possiamo dimenticare che un malato avverte sintomi nel fisico, ma patisce anche la sofferenza dell’anima una sofferenza psicologica, esistenziale. 
 Accanto a chi soffre  è necessario, credo,  educarsi a sentire prima la sofferenza dell’anima piuttosto che quella che viene solo dalla manifestazione di un sintomo fisico,  in un sentire che, diversamente dal dolore fisico, è anche condividere. Le dinamiche che derivano dal prestare cura verso chi soffre, chiamano ciascuno a fare i conti con le proprie paure riguardo l’esperienza e della malattia e del dolore,  e impongono, altresì una discreta maturazione spirituale. Non è pensabile che chi sceglie questa strada di prendersi cura dell’altro nelle sue varie forme disconosca il valore supremo della Croce e della sua connaturata salvezza. Negare o non ascoltare il dolore dell’altro non è solo una mancanza, ma anche la perdita di un’opportunità di crescita personale e comunitaria. 
Frequentando le persone sofferenti si impara ad ascoltare di più, a incoraggiare, a compiere anche i servizi più umili per aiutare l’altro, a non fuggire dalla realtà quotidiana. Si diventa amorevolmente compagni di viaggio,  nella malattia e nella cura.  Chi scrive lo vive tutti i giorni e,  come la testimonianza vuole,  ne condivido con chi legge,  la gioia che provo ad essere di loro appunto compagna di viaggio. Il gesto del prendersi cura risulta essere tra quelli antropologicamente originari e presenti in tutte le fasi della vita: dalle attenzioni riservate al fragile corpo del neonato fino alla venerazione del corpo inanimato ma preziosissimo del defunto che, trasfigurato dalla morte, rifulge come simbolo di Altro da ciò che rappresenta. Cura non è dunque solo termine appartenente alle moderne tecnologie o ai linguaggi specialistici: ogni uomo, e il credente in particolare, deve riscoprire come propria e originaria, questa verità che sta alla base di ogni relazione. 
La famiglia spesso va alla ricerca di qualche cireneo disposto ad aiutarla nel difficile e sofferto compito di assistenza al proprio familiare ammalato, che sostengano i passi indeboliti di chi lotta con la malattia e il dolore. Chi accompagna i sofferenti  rinasce ogni giorno, cioè rilegge i propri atteggiamenti e vissuti alla luce dell’altro che con il suo sguardo, il suo volto, interpella e interroga. Non è dunque possibile sfuggire, ma bisogna mettersi in gioco superando le “prigioni” o i “limiti” delle proprie particolarità caratteriali. Accompagnare la perdita di certezze e aiutare ad affrontare un futuro che la malattia ha reso oscuro, è possibile, entrando in un rapporto di empatia con chi soffre. Noi purtroppo molto spesso fuggiamo davanti al dolore, come se questo può diventare anche nostro. 
La paura è però frutto della debolezza della nostra fede e del non avere ancora capito fino in fondo la forza risanatrice che ci sta dietro ogni sofferenza. Chi soffre lo sa benissimo di avere prima di tutto  bisogno che l’altro veda e riconosca la propria sofferenza e non che la sottovaluti o che la ignora. A questo momento importante fa seguito un altra fase  che è quella  dell’ascolto, indispensabile prerequisito per chi ha deciso in cuor suo di prendersi cura dell’altro.
 Se la persona che soffre non si sente ascoltata, si chiude e se ne va. L’ascolto empatico invece produce apertura e abbandono, Credo sia il primo passo verso un percorso di superamento dell’ empasse.  Chi sente di stare nel dolore e con il dolore non può fare a meno di vivere la comunione con Dio attraverso la preghiera e i sacramenti. Solo così può arrivare all’ altro, come dono d’amore, ciò  di cui nessuno può fare a meno soprattutto nel dolore : la fede.
Che ricordare Gesù Bambino che nasce al freddo al gelo si ricordi anche chi nel gelo ci vive tutti i giorni. Il dolore non condiviso.

                                                             Maria Cristina Siino
 Ciao Giuseppe!!! 
   24/04/2013

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