Il segreto della cura:
Amare
Riflettiamo.....
Chi fa esperienza di malattia si
trova frequentemente a vivere un vissuto fatto prima di confusione, rabbia
amarezza, per poi gradualmente trasformarsi in una specie di silenzio
relazionale, (non se ne parla per evitare il dolore) che calcifica non solo le
emozioni e i comportamenti ma anche alcuni rapporti familiari o di amicizia. Parlare
di cura significa non trascurare che ciascuno di noi in svariate forme e in
diversi momenti della vita prima o poi ne fa esperienza personale; non
illudiamoci però che a noi spetti solo la cura!!! A volte anche noi siamo
chiamati a vivere pienamente il Getzmani.
Molti di noi al di là delle concrete
competenze realmente possedute si fa spesso buon samaritano verso molti
sofferenti di qualunque tipologia. Chi cura
non è solo il medico ma chiunque sappia
mettersi in ascolto di un grido di dolore e poi andare verso quello
stesso grido, quasi svuotandosi di sé per fare spazio al dolore dell’altro.
Quando si arriva a così tanta dedizione spesso non si sente più neanche il
proprio di dolore!! Ciò è possibile perché io scelgo di essere sofferente con i
sofferenti per una sola ragione: prendermi cura con amore. Non possiamo
dimenticare che un malato avverte sintomi nel fisico, ma patisce anche la
sofferenza dell’anima una sofferenza psicologica, esistenziale.
Accanto a chi soffre è necessario, credo, educarsi a sentire
prima la sofferenza dell’anima piuttosto che quella che viene solo dalla
manifestazione di un sintomo fisico, in
un sentire che, diversamente dal dolore
fisico, è anche condividere. Le
dinamiche che derivano dal prestare cura verso chi soffre, chiamano ciascuno a
fare i conti con le proprie paure riguardo l’esperienza e della malattia e del
dolore, e impongono, altresì una discreta
maturazione spirituale. Non è pensabile che chi sceglie questa strada di
prendersi cura dell’altro nelle sue varie forme disconosca il valore supremo
della Croce e della sua connaturata salvezza. Negare o non ascoltare il dolore
dell’altro non è solo una mancanza, ma anche la perdita di un’opportunità di
crescita personale e comunitaria.
Frequentando le persone sofferenti si impara
ad ascoltare di più, a incoraggiare, a compiere anche i servizi più umili per
aiutare l’altro, a non fuggire dalla realtà quotidiana. Si diventa amorevolmente
compagni di viaggio, nella malattia e
nella cura. Chi scrive lo vive tutti i
giorni e, come la testimonianza vuole, ne condivido con chi legge, la gioia che provo ad essere di loro appunto compagna di viaggio. Il
gesto del prendersi cura risulta essere tra quelli antropologicamente originari
e presenti in tutte le fasi della vita: dalle attenzioni riservate al fragile
corpo del neonato fino alla venerazione del corpo inanimato ma preziosissimo
del defunto che, trasfigurato dalla morte, rifulge come simbolo di Altro da ciò
che rappresenta. Cura non è dunque solo termine appartenente alle moderne
tecnologie o ai linguaggi specialistici: ogni uomo, e il credente in
particolare, deve riscoprire come propria e originaria, questa verità che sta alla
base di ogni relazione.
La famiglia spesso va alla ricerca di qualche cireneo
disposto ad aiutarla nel difficile e sofferto compito di assistenza al proprio
familiare ammalato, che sostengano i passi indeboliti di chi lotta con la
malattia e il dolore. Chi accompagna i sofferenti rinasce ogni giorno, cioè rilegge i propri
atteggiamenti e vissuti alla luce dell’altro che con il suo sguardo, il suo
volto, interpella e interroga. Non è dunque possibile sfuggire, ma bisogna
mettersi in gioco superando le “prigioni” o i “limiti” delle proprie
particolarità caratteriali. Accompagnare la perdita di certezze e aiutare ad
affrontare un futuro che la malattia ha reso oscuro, è possibile, entrando in
un rapporto di empatia con chi soffre. Noi purtroppo molto spesso fuggiamo
davanti al dolore, come se questo può diventare anche nostro.
La paura è però
frutto della debolezza della nostra fede e del non avere ancora capito fino in
fondo la forza risanatrice che ci sta dietro ogni sofferenza. Chi soffre lo sa
benissimo di avere prima di tutto
bisogno che l’altro veda e riconosca la propria sofferenza e non che la
sottovaluti o che la ignora. A questo momento importante fa seguito un altra
fase che è quella dell’ascolto, indispensabile prerequisito per
chi ha deciso in cuor suo di prendersi cura dell’altro.
Se la persona che
soffre non si sente ascoltata, si chiude e se ne va. L’ascolto empatico invece
produce apertura e abbandono, Credo sia il primo passo verso un percorso di
superamento dell’ empasse. Chi sente di stare
nel dolore e con il dolore non può fare a meno di vivere la comunione con Dio
attraverso la preghiera e i sacramenti. Solo così può arrivare all’ altro, come
dono d’amore, ciò di cui nessuno può
fare a meno soprattutto nel dolore : la fede.
Che ricordare Gesù Bambino che
nasce al freddo al gelo si ricordi anche chi nel gelo ci vive tutti i giorni.
Il dolore non condiviso.
Maria Cristina Siino
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