lunedì 5 agosto 2013

Formazione continua per Educatori

     Autorità o autorevolezza?
Il  dilemma  di  essere  educatori  oggi
Riflettiamo su ……………..


L’educare – dal latino  e-ducere, “condurre fuori” (metafora dell’opera dell’ostetrico, che conduce il bambino fuori dell’utero materno) –ha sempre a che fare con la nascita Non riguarda, dunque, il fare o l’avere, ma l’essere di una persona.  La metafora dice però anche un’altra cosa, che a volte si dimentica. L’ostetrico non genera direttamente il bambino. Sono quest’ultimo e la madre i protagonisti del parto. Fuori di metafora, nel caso dell’educazione è la persona che deve, per così dire, partorire se stessa, la propria forma interiore. All’educatore spetta, perciò, non di plasmare il volto dell’altro, ma di aiutarlo ad emergere, accompagnandone la crescita. In questo senso, più che essere la cura nei confronti  di qualcuno, l’educazione consiste nel richiamarlo ad avere lui stesso cura di sé, del proprio essere. Di quello che chiamiamo “io”. L’educatore ricopre in genere un ruolo che gli conferisce autorità: di genitore, di docente, di parroco etc.. Questo oggi costituisce un problema, perché la nostra società confonde l’autorità col potere. In realtà si tratta di cose molto diverse.  Il potere è una capacità di coercizione nei confronti di un altro, che lo tratta come un oggetto e ne dispone, perciò, indipendentemente dal suo riconoscimento. Così è del potere economico, di quello psicologico, di quello fisico, che non hanno bisogno, per essere esercitati efficacemente, del consenso di chi li subisce. L’autorità opera diversamente. Di Gesù, nel Vangelo, si dice che la gente era ammirata perché parlava con autorità e non come i loro scribi. Ma il potere lo avevano gli scribi, non Gesù! L’autorità, infatti, è la qualità per cui qualcuno non costringe l’altro, ma è degno che questi liberamente lo ascolti e gli obbedisca. L’obbedienza  indica un atto libero di riconoscimento e di consenso. Il rapito non può obbedire al rapitore, perché ne è trascinato indipendentemente dalla propria volontà. L’obbedienza, invece, implica sempre la possibilità di dire di no, anche se ciò, ovviamente, può comportare un prezzo.  Resta l’interrogativo:  perché obbedire? In latino auctoritas deriva dal verbo augere,  che vuol dire “far nascere”, “far crescere”. L’altro sostantivo che ne deriva, insieme ad auctoritas, è auctor, “autore”. Si ha auctoritas perché si è auctor, si è fatto nascere e si fa crescere un singolo, oppure una comunità. Non a caso Paolo dice che la fonte di ogni autorità è Dio, l’Auctor supremo. E quando - anche a livello semplicemente umano - qualcuno esercita la sua autorità, è come se si ripetesse l’atto originario della creazione,  perché in quella situazione si riflette in qualche modo la relazione primordiale fra Colui che genera e l’universo che, attraverso l’uomo, dice il proprio sì.  L’autorità dell’educatore non può essere vista come una forma di plagio, e l’obbedienza del discepolo come una resa al potere psicologico di un altro più forte. Certo, bisogna essere all’altezza dell’autorità che si esercita. E’ ciò che si chiama autorevolezza. Un educatore non può limitarsi a ricoprire un ruolo che gli dà autorità: deve essere autorevole. Ciò comporta uno stile per cui non solo egli opera per il bene dell’altro  ma lo considera un soggetto con una sua precisa Identità. Questo non significa rinunziare a decidere, ma l’attenzione per il punto di vista dell’altro, esponendo le proprie ragioni, ascoltando attentamente le sue e sapendo, in certi casi, modificare la propria posizione quando queste ultime siano convincenti. L’educatore che talvolta sa riconoscere i propri limiti, le proprie paure, i propri stili comunicativi ecc. diventa molto più autorevole di quello che si arrocca dietro la propria autorità per imporre le proprie decisioni contro l’evidenza e trasformandola così in autoritarismo. Questi  spunti di riflessione non possono esaurire il tema della figura dell’educatore, ma possono costituire un punto di partenza perché, da parte di chi tende a riversare la responsabilità del proprio fallimento educativo sui giovani, ci poniamo qualche domanda. Inoltre credo in relazione alla mia personale esperienza che è fondamentale, per chi  educa, avere un cuore e una passione educativa  grande, che sappia  coniugare  l’amorevolezza, la cura, l’intenzionalità e l’intervento educativo  
volendo bene,
                     volendo  il bene,
                                                volendolo bene,
                                                                        facendolo bene.

Grazie.
                                                                                                 Maria Cristina Siino

                                                                                                 05 Agosto 2013

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