mercoledì 8 ottobre 2014

Liturgia e carità / 2 - Di cosa parliamo parlando di carità?

Liturgia e carità / 2

Di cosa parliamo parlando di carità?

Avviene spesso, anche nello spazio cristiano, che il termine carità sia sentito come ciò che deve essere fatto, che la carità sia ridotta a una dimensione meramente pragmatica che, se da un lato convoglia la generosità e la dedizione verso gli altri, dall’altro assicura al credente il suo protagonismo, il suo essere soggetto dell’amore.

Spesso la carità, ma anche la vita cristiana tout court, sono ridotte al rango di relazione altruistica, alla dimensione dell’impegno sociale, della filantropia, dunque a una dimensione orizzontale che può tranquillamente trascurare il suo fondamento teologico: “l’importante è fare il bene”. Purtroppo nella tradizione cristiana occidentale la carità è stata moralizzata, ridotta a morale delle opere, è stata oggettivata, cosificata, mentre essa, sulla scia della rivelazione biblica ed evangelica si manifesta, ha scritto il teologo Adolphe Gesché, “come follia divina capace di sollevare le montagne del male e dell’ingiustizia”.

La carità è sì una virtù, ma teologale. Secondo il NT, “Amore” è il nome stesso di Dio: “Dio è agápe” (1Gv 4,16), e “Amore” è ciò che Gesù ha vissuto e narrato come Figlio amato dal Padre (Mt 3,17 e par.; Gv 5,20) e che ama gli uomini (Gv 13,1; Gal 2,20), “Amore” è ciò che lo Spirito ha effuso nei cuori degli uomini (Rm 5,5).

L’agape è al cuore della Tri-unità di Dio. Nel cristianesimo la carità assume dunque una configurazione molto precisa, quella manifestata nell’evento pasquale, nella morte-resurrezione di Cristo: quello dunque è il luogo fontale dell’esperienza cristiana dell’amore. “Da questo noi abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi” (1Gv 3,16). L’amore di Cristo che dona la sua vita narra l’amore di Dio: “In questo sta l’amore: non noi abbiamo amato Dio, ma lui ha amato noi inviando il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10).

Tutto questo ha evidenti ricadute ecclesiologiche e noi dovremmo parlare non tanto di rapporto “chiesa – carità”, ma “carità – chiesa”, non tanto di “carità nella chiesa”, ma anzitutto di “chiesa nella carità” in quanto la chiesa è preceduta costitutivamente dall’agape di Dio. Insomma, la carità non la si fa, non la si produce, ma la si riceve e questo è ricordato perennemente alla chiesa dalla centralità nella sua vita dell’eucaristia, memoriale dell’evento pasquale, della morte e della resurrezione di Cristo, dell’amore preveniente di Dio.

“Sacramento dell’amore di Dio”, l’eucaristia è il luogo in cui la chiesa viene edificata come chiesa di Dio, è l’eucharistia in qua fabricatur Ecclesia (Tommaso d’Aquino). Avendo al suo cuore il mistero eucaristico, la chiesa diviene così l’ecclesia ex charitate formata, la chiesa plasmata dalla carità di Dio prima di essere essa stessa soggetto di carità. È solo quando è messo in luce il fondamento rivelativo (teologico e cristologico) della carità, che può anche ricevere la sua giusta luce l’etica cristiana, la risposta umana all’amore di Dio.

Porsi alla scuola della liturgia eucaristica è “la via maestra” per recuperare il senso autenticamente cristiano della carità e per rispondere alla sollecitazione contenuta nella Lettera Apostolica di Giovanni Paolo II Tertio Millennio Adveniente: “Sarà opportuno mettere in risalto la virtù teologale della carità, ricordando la sintetica e pregnante affermazione della prima Lettera di Giovanni: ‘Dio è amore’ (4,8.16). La carità, nel suo duplice volto di amore per Dio e per i fratelli è la sintesi della vita morale del credente. Essa ha in Dio la sua scaturigine e il suo approdo” (TMA 50).

Dobbiamo dunque comprendere l’eucaristia come sacramento della carità, sacramentum caritatis: questo è anche il titolo dell’esortazione apostolica post-sinodale di Benedetto XVI sull’eucaristia che riprende la formulazione di Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae III,73,3: “Eucharistia dicitur sacramentum caritatis”. E dobbiamo comprendere che la partecipazione all’unico pane nell’eucaristia dice che non vi può essere comunione con Dio senza condivisione con i fratelli o, se si preferisce, che unica è la tavola dell’eucaristia e la tavola della carità.

Non è forse questa la suggestione insita nel Discorso 239 di Agostino, in cui il vescovo di Ippona associa il testo di Lc 24 (Emmaus), ovvero la tavola eucaristica, dove Gesù attua la fractio panis facendosi riconoscere dai discepoli come risorto, alla condivisione del cibo operata da Elia con la vedova di Sarepta di Sidone (1Re 17,7ss.), che ridà vita alla povera donna e a suo figlio? Eucaristia e carità sono lì mirabilmente unite.

Luciano Manicardi

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